mercoledì 25 marzo 2009

Giancarlo Siani, un giornalista coraggioso

Napoli, lunedì 23 settembre 1985. Ore 21, circa. Una Citroën Mehari verde acqua si lascia alle spalle via Chiatamone e percorre la strada in direzione del Vomero.

Ha inizio la corsa verso la fine.

Alla guida, un giovane cronista, Giancarlo Siani, 26 anni. La macchina procede a velocità sostenuta su via Morelli, continua su via Filangeri, si infila in Vicolo Mondragone, dopo una serie di curve eccola sul rettilineo di Corso Vittorio Emanuele.

La corsa verso la fine si fa sempre più breve.

Ora è su via Salvator Rosa, svolta a sinistra in via Santacroce, si ferma in Piazza Leonardo. Spento il motore, Siani fa per scendere. Una moto di grossa cilindrata affianca la sua auto. A bordo, due uomini con i caschi calati in testa.

La corsa verso la fine è vicina al traguardo.

Attimi di attesa, gli sguardi si incrociano. Poi, il tonfo sordo dei colpi di una 7 e 65. Pum! Pum! Pum! Il corpo del giornalista si accascia sul volante, un rivolo di sangue gli cola sulla guancia sinistra. I sicari si allontanano, missione compiuta: nella Mehari resta un cadavere senza più parole.

La fine è arrivata.

Così è stato ammazzato Giancarlo Siani, in maniera sbrigativa, feroce. Condannato a morte per ciò che aveva scritto, per quel che forse aveva scoperto: pericolosi intrecci tra interessi pubblici e affari privati, tra politica e camorra. Ma chi era questo ragazzo timido, il corpo affilato, gli occhialoni tondi che gli coprivano metà del viso?

Un cronista. Soltanto un cronista, armato di penna e taccuino. E di grande coraggio. I primi passi nel mondo del giornalismo, Giancarlo Siani li ha mossi collaborando prima alla rivista Osservatorio sulla Camorra, poi con il quotidiano Il Mattino. E lo faceva scrivendo ciò che altri non volevano o non potevano scrivere. Senza paura, animato solo dal desiderio di far bene il proprio mestiere. Con rigore e coerenza. Rompendo silenzi e conformismi. Ha iniziato subito ad occuparsi di criminalità organizzata Siani, intuendone la pericolosità sociale. Svelandone il volto più oscuro: il suo essere Stato dentro lo Stato. Un’istituzione con le sue leggi, il suo esercito. Un vero esercito, formato da criminali spietati uniti dalla fede nell’unico Dio, cui gli affiliati alla Camorra credono senza limiti e senza riserve: il Dio denaro.

Si muoveva in una terra difficile, Siani. La terra del privilegio più sconcio, della corruzione più infima: Torre Annunziata. Un “non-paese” dove le leggi esistevano solo per essere aggirate. Regno incontrastato dei clan di Camorra in guerra tra loro per il controllo del territorio e del traffico di droga. È qui che ha iniziato a indagare per capire. Ma il processo del capire richiede un minimo di logica, e la logica a Torre Annunziata non esisteva. O meglio, esisteva solo quella dell'arricchimento facile, del profitto a ogni costo. Tutto questo era ben chiaro a Giancarlo Siani, convinto che oltre alla denutrizione del corpo, bisognasse curare anche quella dell’anima cioè quella che viene a non sapere. E poiché entrambe impediscono di crescere, oltre a mangiare bisogna sapere. Per questo trasferiva sulla carta stampata le notizie, i fatti di cui era venuto a conoscenza dopo aver indagato a fondo. Per farle conoscere a tutti. Per aprire gli occhi a chi non voleva vedere. Sturar le orecchie di chi non voleva sentire.

Siani non si voltava dall’altra parte. Tantomeno si considerava un eroe solitario: piuttosto, un giornalista che descriveva ciò che non tutti riuscivano, o non volevano, vedere al di là delle apparenze. Era consapevole dei rischi, ma aveva capito l’importanza dell’informazione in una terra difficile. Non l’informazione asservita, complice. Quella che tradisce la verità con il silenzio. Che ricorre alla menzogna per distrarre e confondere. Ma un’informazione chiara, onesta, scrupolosa. Quella che nasce dalla passione civile, dalla verifica delle fonti, dalla precisione del racconto. Che suscita domande, che fa riflettere e facendo riflettere risveglia le coscienze addormentate o distratte. Obiettivo non facile dove regna l’omertà, l'assuefazione al compromesso. Raggiungibile però con una scrittura chiara, diretta, efficace come quella che Giancarlo Siani usava nei suoi articoli, dove ai tecnicismi preferiva parole semplici, alle perifrasi l'analisi approfondita, alla retorica fumosa nomi e cognomi dei responsabili dei reati.

E ci riusciva benissimo, perché scendeva in strada, parlava con le persone, entrava nei fatti. Faceva parlare i fatti. E proprio questo suo modo di intendere il giornalismo lo ha portato a sbattere contro il clan dei Nuvoletta. In uno degli ultimi pezzi, Siani ha rivelato che l’arresto del boss Valentino Gionta, vicino ai Nuvoletta, era frutto della soffiata fatta ai carabinieri da un affiliato alla stessa famiglia, per giungere a una tregua con il clan rivale. In questo modo il giornalista aveva svelato un retroscena infamante per l’onore camorristico: il tradimento.

E' la fine.

Napoli, lunedì 23 settembre 1985. Dalla redazione del “Mattino”, Giancarlo Siani telefona ad Amato Lamberti, direttore dell'Osservatorio sulla Camorra. È preoccupato, vuole raccontargli qualcosa. Forse è insospettito per un saluto troppo caloroso che un camorrista gli ha rivolto la sera prima. O forse ha in mano documenti scottanti sull’infiltrazione della Camorra negli appalti per la ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia. Ipotesi. Nient’altro che ipotesi.

“Amato ti devo parlare”.

“Dimmi Giancarlo, che c'è?”.

“No, non per telefono. Vediamoci domattina. Prima di andare al giornale passo da te”.

“Va bene, a domani”.

“A domani”.

Nessuno ha mai saputo cosa Giancarlo Siani avrebbe voluto dire ad Amato Lamberti. La mano spietata dei killer è stata più veloce.

Per nove anni le indagini sull'omicidio Siani non porteranno da nessuna parte. La sentenza definitiva arriverà solo nel 2003, diciotto anni dopo l'omicidio.

La motivazione è chiara: Giancarlo Siani è stato ammazzato per quel che scriveva, cioè per aver fatto bene il suo lavoro.

Alessio Orlandi